21 gennaio 2014

LE LACRIME DI GIOIA E DOLORE DELLA MERAVIGLIOSA DAKAR 2014

Eric Palante
Se mi chiedete di raccontare la Dakar 2014, veramente non saprei da dove iniziare. Il classico misto di felicità e tristezza mi invade, lo stupore di una gara che non ha eguali al mondo viene disturbato dal tragico momento che immancabilmente si fa presente come a farci nuovamente capire che il più bello viene sempre accompagnato dal più brutto. Dune, meraviglie di sabbia, infiniti salari, le montagne, i passaggi mozzafiato ai quasi 5000 metri d’altitudine, i pianti, le gioie, i guadi, il calore della gente, bellezze disumane che mi lasciano a bocca aperta, brividi di stupore che si bloccano di fronte alla morte, che purtroppo anche quest’anno si è fatta viva. È toccata a Eric Palante, belga di 50 anni alla sua undicesima Dakar; una morte assurda perché solo il camion scopa è stato capace di trovare il corpo dello sfortunato pilota al quale l’esperienza non mancava di certo, un uomo che come tutti aveva fatto i suoi mille sacrifici per esserci nuovamente e sognare di essere un finisher nella splendida Valparaiso. Allo stesso tempo, è una morte che va “accettata”: quando un essere umano decide di fare la Dakar, lo sa che la sua vita per 20 giorni sarà in ballo, sa di mettere il casco ma non sa se arriverà a toglierlo con le proprie mani. Un destino crudele, un destino che fa parte del gioco se vogliamo; ma quello che non vorrei mai fosse detto, è di cancellare questa gara. La Dakar non si cancella, è una meraviglia questa corsa, e in termini di sicurezza si sta facendo l’impossibile, ma mai si arriverà a fermare quel crudele destino, quell’avversario in più per ogni atleta che decide di provarci. Siamo consapevoli, non è la prima vittima e non sarà l’ultima.

Laustraliano Davidson
Ma cambiamo discorso, l’intera grandezza della Dakar, forse non la si vede nel mondo dei piloti ufficiali, forse per loro è “lusso” doverla affrontare con degli aiuti che per i privati non esistono. Ma sono proprio quest’ultimi che se osservati da vicino per quei 20 giorni, ti fanno render conto di cosa significhi la gara più difficile e massacrante al mondo. Pianti, lacrime, sabbia, fango, dolori, zero riposo, road book non segnalato, chiedetelo al pianto dell’australiano Davidson che per 27 ore è rimasto in sella alla sua moto e dopo 20 minuti di pausa è dovuto, o quantomeno ci ha provato a ripartire commovendo tutto il mondo. Gente che arriva al bivacco di notte e deve scegliere se riposarsi oppure fare una doccia prima di ripartire. Una sofferenza continua espressa anche nella classifica generale delle moto: se Marc Coma ci ha impiegato 54 ore a terminare la gara, il nostro Luca Viglio ne ha impiegate ben 104, più del doppio, 76esimo in classifica generale, ma con la stessa felicità dello spagnolo, se non di più, è salito sul podio finale cileno.

Salar de Uyuni
E poi alla sera l’immancabile appuntamento con Eurosport che ha raccontato la corsa giorno dopo giorno senza far mancare nulla agli spettatori da casa e regalando delle immagini che ti lasciano a bocca aperta, un sogno da vedere dal vivo, un regalo in più per quegli atleti che cercavano un po’di sollievo alla sofferenza. Il Salar de Uyuni è stata la meraviglia di questa Dakar, una distesa salata di circa un centinaio di chilometri capace di far rimanere a bocca aperta chiunque fosse collegato alla tv; le montagne argentine delle Ande, le insenature nella quali si infilavano auto, moto, quad e camion, e poi le dune, molti pagherebbero il momento di essere il pilota che affronta l’ultima duna di sabbia di una giornata terribile e di fronte a sé si ritrova la distesa dell’Oceano Pacifico. Non da meno i passaggi in altura, lì dove l’uomo soffre, ma a farlo lo è anche il suo motore; l’elicottero che atterra ai quasi 5000 metri decine di volte per soccorrere chi è in sofferenza con l’ossigeno, piloti in auto allacciati alla cannette dell’ossigeno stesso per migliorare la respirazione. Senza dimenticare le lacrime di chi è caduto e ha visto svanire un sogno, le lacrime di sudore dalla fatica, le imprecazioni degli equipaggi, piloti che sotto i 50 gradi di caldo cercavano di tirar fuori auto e camion dalla sabbia. Immagini che allo stesso tempo diventano storia da raccontare.

La partenza di Rosario
Tutto quello che ho appena cercato di evidenziare, in queste due settimane è stato condito da un calore della gente che non ha eguali. In Sudamerica l’affetto che regala il popolo a questa mitica corsa non lo si trova in nessun’altra parte del mondo, gli argentini a Rosario alla partenza erano un milione, per il passaggio in Bolivia erano in 400 mila ad aspettare gli eroi e a Valparaiso all’arrivo circa 600 mila. Numeri che non danno però l’idea dell’entusiasmo dal vivo, quasi ad alleggerire l’ingresso all’inferno (la partenza), ad alleviarlo (in Bolivia a metà gara) e a festeggiarne l’uscita (l’arrivo) dei piloti.
Un vero e proprio inferno, queste sono la maggior parte delle parole dei piloti per l’inizio che ha riservato la Dakar 2014. Terribile, se si pensa che la maggior parte dei ritirati lo ha fatto nei primi tre/quattro giorni, vedendo svanire magari le migliaia di euro o dollari investiti subito all’inizio. La Dakar è anche questa. E lo spirito del pilota di questi sport di fronte ad un ritiro o una caduta è quello di voltare subito pagina e pensare al 2015.
The adventure continues…

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